MARIAGIOVANNA SAMI

Nel corso della giornata trascorsa al Politecnico abbiamo avuto l’opportunità di porre numerose domande alla professoressa Mariagiovanna Sami, docente di Digital Processing Systems, presso il Politecnico di Milano. Ciò che ci ha maggiormente coinvolti e affascinati – e che desideriamo raccontare attraverso questa intervista – sono la straordinarietà e la modernità del suo percorso, che abbiamo avuto modo di scoprire attraverso le esperienze e gli aneddoti che ha generosamente condiviso con noi.


Intervista

Qual è stata la sua esperienza personale nell’essere una donna nel campo dell’ingegneria, e quali difficoltà ha incontrato ad affermarsi inizialmente nella scuola e poi nel mondo del lavoro?
Quando iniziai i miei studi al Politecnico c’erano le vecchie aule ad anfiteatro, con dei sedili scomodissimi in legno, forse disegnati da una donna esperta di tortura. Le matricole erano in tutto novecento, noi ragazze eravamo solo tre. Il primo giorno di lezione, dopo aver aperto la porta dell’aula, mi trovai quattrocento maschi che in coro gridavano “Nuda!” Avevo due possibilità: o girare le spalle e decidere di andare a frequentare la facoltà di lettere, oppure dire “Ragazzi, non sapete con chi avete a che fare!”.
Oggi fortunatamente fatti del genere non succedono più.
A quei tempi non c’erano bagni per le signore alla facoltà di ingegneria, quindi noi ragazze eravamo costrette ad andare alla facoltà di architettura.
Ma, a parte queste difficoltà, eravamo talmente poche che venivamo anche un po’ coccolate. Io, ad esempio, avevo sempre il posto in prima fila: in queste aule enormi, con quattrocento studenti, stare davanti era un vantaggio, perché chi stava all’ultima fila talvolta non riusciva nemmeno a vedere la lavagna.
Nel corso della carriera devo ammettere che, in questo dipartimento in particolare, ho incontrato dei capi che erano persone molto aperte, di larghe vedute, e che non facevano nessuna differenza di genere: l’importante era far notare tracce di buona didattica e di buona ricerca. Mi sono trovata in una situazione fortunata con un capo molto bravo; purtroppo so per certo che non è stato e non è così ovunque.
La situazione appariva diversa durante i congressi internazionali. In quelle occasioni in una sala con duecento partecipanti le donne erano soltanto due o tre e venivano trattate come delle mosche bianche.
Mi ricordo di avere discusso vivacemente negli anni 80 con un collega olandese, ai tempi di un primissimo piano di ricerca europeo per la microelettronica. Era presente un rappresentante per ogni nazione e io rappresentavo l’Italia. Il collega olandese mi confidò di essere molto arrabbiato con sua figlia perché desiderava iscriversi ad ingegneria, ma secondo la sua opinione l’ingegneria non era un mestiere adatto ad una donna: le donne avrebbero dovuto fare la maestra o l’infermiera. Io non presi bene questa esternazione.
Negli anni 80 succedevano ancora queste cose: mi auguro che oggi non succedano più.
Mi è anche capitato di dover difendere le mie allieve. A metà anni 70 avevamo il primo laboratorio di microprocessori in questa facoltà. Ad un pranzo di lavoro mi trovai seduta accanto ad una signora, proprietaria di un’azienda di medie dimensioni, ma ad alta tecnologia, che aveva recentemente avuto grossi problemi di personale. Chiacchierando mi disse di essere interessata ad assumere un neolaureato che avesse svolto studi specifici sui microprocessori. Visto che quest’azienda non si trovava molto vicino a Milano, ma in un’altra provincia, le ho proposto di assumere una ragazza bravissima, in procinto di completare la tesi su questo argomento, che abitava proprio nel capoluogo della provincia in cui si trovava l’azienda. La reazione fu di rifiuto per l’assunzione di una donna, che avrebbe sicuramente affrontato delle maternità. Questo purtroppo è un caso che talvolta si verifica: che le donne siano le peggiori nemiche delle donne. La ragazza è stata successivamente assunta in una grande azienda con le idee molto più larghe.
Oggi il comportamento di quella imprenditrice sarebbe passibile di denuncia, ma negli anni 70 non c’era ancora questa possibilità. In quegli anni la piccola-media impresa era dominata da una mentalità chiusa; oggi la piccola-media impresa valuta esclusivamente la specializzazione e l’immediata capacità operativa, non il genere.
Secondo lei, nel futuro, la proporzione tra uomini e donne nel campo dell’ingegneria cambierà rispetto a quella che c’era in passato o rispetto a quella che c’è ai giorni d’oggi?
Io me lo auguro caldamente, anche in base al discorso che mi fece una volta un dirigente di Intel. Intel ha sempre supportato fortemente gli studi, anche per le ragazze. Il ragionamento di quel dirigente era lineare ed efficace. Partendo dalla considerazione che la popolazione mondiale è costituita per circa la metà da donne, egli riteneva che la distribuzione statistica dell’intelligenza della popolazione fosse “rumore bianco”, ovvero diffusa in modo assolutamente uniforme. Quindi si chiedeva che senso avesse rinunciare alla metà delle potenziali capacità umane solo per uno stupido pregiudizio.
Io spero che oggi non ci siano più condizionamenti da parte dei docenti delle superiori, come invece avveniva un tempo, quando le ragazze erano indirizzate al massimo alle facoltà di matematica e fisica, ma generalmente dissuase dall’affrontare studi ingegneristici. Oggi la situazione è completamente diversa: ad esempio, un’azienda come la BTicino, che si occupa di automazione domestica, apprezza la flessibilità femminile e la capacità delle donne di comprendere meglio certi tipi di esigenze.
Sapendo ciò che la aspettava, cosa l’ha spinta a scegliere ingegneria piuttosto che un altro indirizzo?
Mi attirava. Mi piacevano molto le materie umanistiche, ma anche quelle scientifiche. D’altra parte per il mio carattere, per la mia mentalità, preferivo qualcosa che non mi portasse verso
studi a carattere teorico, ma verso studi che prevedono aspetti di realizzazione. Ad esempio, se avessi seguito gli studi umanistici, la mia scelta non sarebbe stata filosofia, ma archeologia.
Sono fermamente convinta che ciascuno debba fare ciò per cui si sente portato o ciò da cui si sente attratto. Ricordo un vecchio medico napoletano che disse alla nipote “Fai ciò che ti piace altrimenti, come si dice a Napoli, il lavoro diventa a fatica”.
Fate ciò per cui vi sentite portati!
Quali sono alcuni hobby che è riuscita a coltivare nel tempo libero?
Fino a qualche tempo fa, fino a quando ho avuto un po’ di tempo libero, ovvero fino a quando non ho accettato di fare il direttore di questo dipartimento, avevo un hobby un po’ particolare: scrivevo romanzi gialli per ragazzi, poi pubblicati da Mondadori. Ho scritto anche alcuni romanzi rosa, che non sono stati pubblicati con il nome di Mariagiovanna Sami, poiché facevano parte di una collana che allora veniva molto apprezzata dalla nostra bibliotecaria: preferivo evitare interrogatori sulle trame dei miei scritti. Ho fatto anche un po’ di divulgazione per ragazzi, ma in seguito non ho più avuto tempo.
Quanto è stato importante la sua famiglia per la sua scelta?
Mi hanno lasciata libera di scegliere. Ricordo la battuta del mio nonno materno, la cui unica perplessità di fronte alla mia scelta universitaria era il fatto che venissi da un liceo classico e che quindi avessi una scarsa base di matematica e di fisica. Mio padre era amico del professor Bottani, così decisi di chiedere il suo parere. La sua reazione fu molto particolare: “Hai gli occhi giusti per fare ingegneria”. Cosa volesse dire non l’ho mai saputo. La mia fortuna è stata che nella mia famiglia c’è sempre stata molta apertura.
Abbiamo parlato del rapporto delle donne in ingegneria con gli uomini. Che relazione c’era invece con le poche altre donne?
Durante gli studi eravamo pochissime, era dunque naturale stringere amicizia tra ragazze della stessa sezione. Poi, procedendo negli studi, noi ragazze abbiamo scelto di seguire corsi diversi, quindi le occasioni di incontrarsi diventavano più rade e capitava di perdersi di vista, come succede con i compagni di liceo.
Con le mie colleghe di questo dipartimento invece c’è sempre stata una grande amicizia e, a dirla tutta, anche una certa complicità.
Secondo lei il campo delle scienze e della tecnologia offre generalmente più opportunità di affermarsi per una donna rispetto ad altri campi come quello dell’economia?
Credo che anche in quel campo sia in atto una sorta di rivoluzione copernicana. Alcune amiche, che lavorano nel mondo della finanza, mi raccontavano che trenta o quaranta anni fa si trovavano a vivere in un mondo chiusissimo, forse anche più del nostro. Ricordo anche un professore di giurisprudenza che anni orsono, quando fu stabilita la distinzione tra professori ordinari e associati, si vantava del fatto che nella sua facoltà non ci fossero né donne né associati.
Oggi invece il mondo è completamente diverso: il presidente della Corte di Cassazione è una donna.
Addirittura mi è stato riferito che alcuni decenni addietro una neoassunta in una banca non veniva destinata alla cassa, perché si riteneva che quella posizione potesse essere più pericolosa per una donna che per un uomo. Si pensava infatti che una donna potesse essere più facilmente vittima della violenza dei rapinatori.
La chiusura nei confronti delle donne è stata presente anche in ambiti insospettabili, come quello dell’insegnamento: ricordo che in Regione, presso l’Assessorato Cultura e Giovani tanti anni fa avevano esposto la fotocopia di una normativa di fine Ottocento, da cui risultava che le maestre avevano uno stipendio inferiore ai maestri, ma in cambio avevano un compito in più, ovvero dovevano garantire che il personale ausiliario lavorasse bene.
Quando ha scelto l’università che ambizioni aveva?
Mi stava a cuore soprattutto laurearmi bene. Nella seconda metà degli anni 60 in Italia si era in piena espansione industriale, avevo quindi la sensazione che avrei potuto trovare una strada soddisfacente. Alla fine del quinto anno ho partecipato a un bando per una borsa di perfezionamento. Da quel momento in poi penso che la vita diventi frutto di scelte, ma anche di occasioni.
Qualche consiglio per le ragazze che magari hanno pregiudizi verso indirizzi scientifici? Qualche consiglio per buttarsi?
Questo pregiudizio è un grande errore. Anni fa un professore di Harvard ha pronunciato un discorso inaccettabile, nel quale sosteneva, in base a dati statistici, che le donne sono anatomicamente e cerebralmente meno portate per gli studi di tipo STEM. Queste statistiche non tengono conto del fatto che, in passato, molto spesso non veniva concesso alle donne di comparire con il loro nome. Nel Settecento ci fu una grandissima matematica, Sophie Germain, la quale fu costretta ad iscriversi all’università con un nome maschile; i suoi lavori, di grande pregio, non furono mai pubblicati con il suo nome, ma con quello del suo professore.
La stessa cosa avveniva in tutti gli ambiti. Nel mondo della musica, ad esempio, la sorella di Mendelssohn, che era un’ottima compositrice, non poté pubblicare suoi lavori per il veto del fratello, che evidentemente voleva essere l’unico Mendelssohn nel mondo dell’arte. Tintoretto aveva una figlia molto brava, che lavorava nella bottega del padre, ma non poté mai firmare un lavoro. Questi non sono che alcuni esempi del mancato riconoscimento del ruolo delle donne nello sviluppo scientifico e culturale dell’umanità.
Molto spesso quindi le statistiche nascondono, la realtà è diversa da quella che viene fatta emergere.